di Gabriele Ottaviani
Rammento le ninnenanne che Marietta, anima santa, dedicava alla sua bambola, una bambola che aveva cinquant’anni, proprio come la figlia che le strapparono quando fu internata con la vergogna della ragazza madre.
È la regina della casa, ma le si è frantumata la pazienza, perché è tutta la vita che gli uomini ne abusano, padri e preti compresi. Eppure non può non rassicurare la madre che sia tutto a posto. Angela P., dal canto suo, è deceduta a quindici anni, marchiata a fuoco da una parola, idiota, internata in un manicomio d’epoca fascista, morta senza essere mai stata presa in braccio. Lui invece ha in testa solo Nina, il suo grande unico amore. Ma una sera incontra Riccardo al bar. Riccardo… Non si vedono da dieci anni, prima frequentavano più o meno lo stesso giro, poi le strade si sono separate. Capita, succede. Come capita e succede che poi si intreccino di nuovo, come fili della trama di uno stesso tessuto. E allora capita e succede che Riccardo lo fa ubriacare, se lo carica in macchina e gli rovina la vita, gli fa pagare una colpa non sua. E poi c’è Enzo, a cui la menzogna ha rovinato la vita, a cui non è rimasto altro da fare, poi, che chiedere al suo pubblico, dove fossero rimasti, mentre il corpo già cominciava a patire pene infernali per la giustizia ingiusta, arrogante come sa esserlo solo il correttore automatico del computer, che non avendo nemmeno lo stimolo della fame, non sapendo neanche cosa sia la fame, di cosa si tratti, si ostina a considerare indegna di considerazione la libera scelta di scrivere fagioli con due g, perché tutte le cose che tolgono la fame hanno la doppia, e allora perché solo loro con la consonante scempia? Vabbè che sono umili per definizione, ma cos’hanno di meno di una bistecca, di un risotto, di una frittella…? E mentre Giove lucida i temporali perché nessuno può permettersi di prendere in giro un miracolo d’amore, e Mafalda bestemmia il suo male di vivere, il mare, che tra le tante città che bagna non dimentica di ingolfarsi a Trieste, si dimostra come sempre l’unico vero democratico, perché abbraccia i piedi stanchi dei disoccupati, i muscoli sudati dei pescatori e persino le chiappe dei nobili, sia detto senza offesa. Per le chiappe, ovviamente. Ventisei racconti che davvero mostrano come gli ultimi siano i primi nel cuore di chi sa amare. I più cari, i più prossimi alla sua sensibilità, quelle bocche in cerca di un urlo a cui lui presta il conforto della sua scrittura, facendosi tramite del loro cuore, filo rosso delle loro emozioni. Con Mastica e sputa (Bompiani), perfetto sin dal titolo (d’altronde cita De André) e dalla copertina, Pino Roveredo regala al lettore istantanee di bellezza, fiori che spuntano nell’asfalto di una vita che dà, ma soprattutto toglie. E può togliere tutto, ma non la rabbia di essere. Da non perdere.
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