di Gabriele Ottaviani
Una volta a casa, contrariamente alle mie abitudini decisi di non dire niente a mia moglie. Non solo mi avrebbe dato del pazzo perché mi ero ostinato a vincere, ma avrebbe dubitato della mia capacità di giudizio. Cominciavo a dubitarne anch’io, a dire il vero. Così mi limitai a salutarla e mi rifugiai nel mio studio, circondato dai libri. Ero scosso, ancor più di prima, e avevo bisogno di trovare un sistema per distendere i nervi. Pensai a quello che mi sarebbe potuto succedere se non fosse intervenuto il cinese. Quel posto era enorme, labirintico, pieno di stanze, in gran parte non illuminate, e a quell’ora era quasi deserto, senza personale né telecamere di sorveglianza visibili. Rabbrividii quando giunsi all’ovvia conclusione: avrebbero potuto farmi a pezzi. Poi, dopo avermi frugato in tasca per recuperare la chiave, avrebbero rintracciato facilmente la mia auto con il telecomando e se ne sarebbero disfatti. Quanto al mio corpo, si sarebbero sbarazzati anche di questo, per esempio gettandolo nel Potomac o abbandonandolo semplicemente in un vicolo buio. Washington non sarà più la «capitale dei delitti», ma non è esattamente Disneyland. Stavo esagerando nel valutare il pericolo che avevo corso? Ma in tal caso, perché il giocatore cinese – che sia benedetto – si sarebbe dato tanto da fare per tirarmi fuori dai guai? Pensare a questi dettagli non mi aiutava a distendermi. Presi una pipa di radica, la caricai di tabacco Virginia e la accesi. Cominciai a tirare boccate regolari, cercando di concentrarmi sulla tecnica. Il fumatore esperto dovrebbe mantenere la pipa sempre sul punto di spegnersi. L’idea è quella di tirare quanto basta perché il tabacco rimanga acceso, ma non tanto da far surriscaldare la pipa. È una tecnica complessa che non sono mai riuscito a padroneggiare fino in fondo e la concentrazione che richiedeva mi aiutava a entrare in uno stato meditativo. Una domanda emerse con prepotenza: cosa mi era saltato in mente? Che cosa mi aveva spinto ad andare a quel club pur sapendo che non era un posto sicuro nemmeno di giorno, ad accettare la sfida di una testa calda e a mettercela tutta per batterlo senza pensare neanche un istante alle possibili conseguenze? Ho scritto che il tennistavolo dà dipendenza, è vero, ma ho anche aggiunto «in una certa misura». In circostanze normali, chiunque rinuncerebbe a una partita se vincere volesse dire rischiare la propria vita, per quanto incredibile possa sembrare. Ero comodamente seduto nell’unica poltrona del mio studio, che è piuttosto piccola e bassa. Di fronte, all’altezza dei miei occhi, c’era un lungo ripiano colmo di libri dello psicoanalista Carl Gustav Jung e di alcuni suoi seguaci. Era il secondo ripiano a partire dal basso, una collocazione di second’ordine, che corrispondeva a ciò che pensavo ora di lui. Una quindicina d’anni prima mi ero immerso negli studi junghiani, ma alla fine ero diventato diffidente nei suoi confronti e l’avevo lasciato perdere. So di averlo già citato in precedenza, ma soltanto nel contesto dell’I Ching, che contribuì a diffondere in Occidente. Volevo assolutamente analizzare il mio comportamento avventato e comprenderne il motivo, ma ero restio a consultare i libri di Jung dopo essermene allontanato. E poi, perché mai avrei dovuto consultarli?
Guido Mina di Sospiro, La metafisica del ping-pong – Il tennistavolo come introduzione alla filosofia perenne, traduzione di Alessandro Peroni con la collaborazione dell’autore, Ponte alle grazie. Che lo sport sia un simbolo, una metafora, un ricettacolo di valori, un insegnamento, un modo di confrontarsi con sé e gli altri, uno strumento per crescere, imparare, migliorare, accettare l’esistenza, saper gestire i rovesci della sorte e i lati oscuri dell’animo e non gloriarsi eccessivamente delle vittorie, perché ci vuol niente a scivolare e cadere giù, e poi rialzarsi, benché edificante, è senza dubbio difficile, faticoso e doloroso, è un dato di fatto. Che la filosofia, indagando l’uomo e il posto nel mondo, abbia con lo sport molto in comune anche. Che il tennistavolo, apparentemente un passatempo da vacanza estiva, un po’ à la Sapore di mare, sia invece una disciplina assai impegnativa, tanto da far parte del novero di quelle ammesse finanche alle Olimpiadi, non c’è alcun dubbio. Provate ad affrontare una sfida con superficialità, ne uscirete con le ossa rotte. Come del resto nella vita. Il libro è intelligente, arguto, ironico, profondo, avvincente, sorprendente: ha il ritmo di uno scambio inesausto tra due fuoriclasse cinesi – si sa, in Asia hanno una scuola a dir poco magnifica – che imbrigliano l’attenzione degli astanti cui mozzano il fiato. Una bizzarria? No, un testo che fa pensare. Ed è quanto di meglio si possa chiedere a un libro.
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