venezia 72

“Rabin, the last day”

rabin-the-last-daydi Gabriele Ottaviani

Era il quattro di novembre del millenovecentonovantacinque. Yitzak Rabin viene ucciso. Ce lo ricordiamo bene anche in Italia, al di là della rilevanza storica delle tragedia, perché le trasmissioni in diretta della nostra televisione generalista, in una sera come tante (andava in onda Scommettiamo che…), furono interrotte dalle edizioni straordinarie dei telegiornali. Rabin è stato assassinato. Da un estremista della destra radicale. Ebreo come lui. Rabin, insieme a Peres, voleva la pace. E sapeva che un accordo prevede un compromesso. Per dialogare si deve venirsi incontro. Questo era il senso del documento di Oslo. Tendersi una mano. Pensare da statisti. Al futuro. Al benessere. Alla salvezza. Perché non ci fossero più ogni giorno madri costrette a piangere la morte dei piangere i figli per colpa dell’insensatezza delle miserie umane. E lo hanno dipinto come un traditore. Uno schizoide. Un deficiente. Un pazzo. Un nemico. Un succubo della sinistra. Un blasfemo che voleva annientare il popolo di Israele e svendere il suo Paese e finanche la Torah. Un empio degno di anatemi e maledizioni. Un uomo senza senso della realtà. Un assassino. Un oppressore. Il distruttore del sionismo. Ne hanno esposto fantocci vestiti alla maniera di Arafat, o bruciato ritratti in cui gli avevano dipinto addosso l’uniforme delle SS, o della Gestapo. Non ha mai indietreggiato. Sapeva di rischiare, e non solo voti. E così, in quella piazza di Tel Aviv che oggi porta il suo nome, fu ammazzato. A sangue freddo. A colpi d’arma da fuoco. Il film di Amos Gitai (Free zone, Kippur, Verso oriente…), Rabin, the last day, è da ogni punto di vista solido, poderoso, potente, parla alla coscienza, ha quella forza che si è vista per esempio, mutatis mutandis, in Argo o in Munich. Mescola filmati di repertorio al girato in cui si ricostruisce l’indagine di una commissione di inchiesta per accertare verità e colpe, con armonia. Non si tira indietro quando si tratta di criticare certe ipocrisie della politica (e l’attuale primo ministro Netanyahu viene più volte indicato come un personaggio che, nonostante la facciata, non si è certo stracciato le vesti di fronte a chi urlava contumelie raccapriccianti), e soprattutto pone l’accento su quanto le mani dei terroristi spesso siano armate da predicatori folli, che piegano la sacralità della religione ai loro deliri. Da vedere. Per non dimenticare.

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