Luca Guadagnino ha dichiarato di aver tratto ispirazione per il suo film in concorso a Venezia, A bigger splash, dall’omonima serie di quadri dell’artista americano David Hockney, dal documentario su quel medesimo argomento diretto da Jack Hazan e da One plus one, in cui Jean-Luc Godard ritrae i Rolling Stones mentre lavorano a Sympathy for the devil. Un ulteriore punto di partenza poi è naturalmente La piscina, di cui è almeno nelle intenzioni iniziali una sorta di remake: al posto della Costa Azzurra la meravigliosa Pantelleria, anziché Alain Delon, Romy Schneider, Maurice Ronet e Jane Birkin si ritrovano sullo schermo Tilda Swinton, Ralph Fiennes, Dakota Johnson e Matthias Schoenaerts. Il problema non è però tanto il cast, che tutto sommato fa il suo, pur non ottenendo risultati avuti altrove, ma il fatto che tutti – troppi? – questi riferimenti elevati non siano stati tradotti – non si è probabilmente voluto, potuto o saputo farlo – compiutamente, in un’opera che mantiene un’estetica bella ma fredda, come se un quadro di Hopper venisse privato della sua struggente, sotterranea, esplosiva malinconia, come se si stesse osservando un oggetto di design. Di pregio, sicuramente, ma per l’appunto un oggetto. Solo, con tutto il rispetto, un oggetto. Materiale. Una cosa. Un elemento, dunque, non vivo. E che talvolta non ha nemmeno una specifica o fondamentale funzione. Rispetto, per dire, e mutatis mutandis, a Io sono l’amore, sempre con Tilda Swinton, e scritto, oltre che dal regista, da Ivan Cotroneo, Barbara Alberti e Walter Fasano (qui invece c’è solo un’altra firma oltre a quella di Guadagnino, quella di David Kajganich), l’involuzione appare evidente. Forse perché lì il modello – comunque non raggiunto – era Visconti? Chissà. Ma certo c’è un momento nel corso della vicenda in cui la piscina deve essere svuotata: ecco, quell’immagine sintetizza il film. Una piscina vuota. Ossia un luogo chiuso, recintato, limitato, anche angusto, a volerla dir tutta, da cui viene tolto, espulso, estratto, portato via l’elemento che gli conferisce significato. E rimane quindi la sensazione di assenza. Il film si perde, latita, manca, non imbocca con sicurezza nessuna strada, non appassiona. È un gioco delle parti, o meglio di potere, di prevaricazioni, una partita a scacchi, perlomeno nei desideri di chi lo ha realizzato: vorrebbe essere sottile, ma in realtà è smaccato sin da subito. Nonostante questo resta inespresso, come suona stonato, posticcio, stridente e irrisolto ogni tentativo di instaurare un confronto tra l’eremo dorato dei protagonisti e il contesto di un’isola dove si festeggiano sagre paesane un po’ pacchiane, nella quale i carabinieri (su tutti il maresciallo Corrado Guzzanti) sono figure di un provincialismo che ridicolizza e che fa pensare che al confronto Pane, amore e fantasia fosse ambientato nel futuro e in una metropoli, e in cui si avverte a fasi alterne il problema dell’arrivo dei migranti, raccontato però con un po’ troppa faciloneria e banalità. La neghittosità dei corpi per lo più nudi dei protagonisti che passano stancamente le loro giornate aggiungendo ore alla vita e non vita alle ore comunica solo pigrizia, indolenza, accidia. Ralph Fiennes, manager del rock che raggiunge in vacanza la sua ex, Marianne, diva della musica che riempie gli stadi ma che attualmente è costretta all’afonia per non perdere del tutto il suo bene più prezioso, è caricaturale ed esagerato in tutto, però il dualismo tra il suo profluvio di vanità e il silenzio del personaggio della Swinton – e in misura minore anche degli altri, che giustamente mal sopportano il suo sterile tentativo di provocazione continua – rimane solo su carta. Dakota Johnson è costretta nel ruolo della Lolita indifferente e indefinita, figlia che Fiennes scopre già adulta, e Matthias Schoenaerts, forse comunque il migliore, in quello del fotografo poco più che toy boy tormentato da passati dolori che lo hanno portato a un passo dalla morte. In definitiva, una delusione. Peccato.
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