C’erano una volta i dialoghi al cinema. Introdotti col cinema sonoro. Nato nel lontano 1927. A ridosso della crisi economica, dei totalitarismi europei, del crollo degli imperi e nel pieno della grande letteratura novecentesca. E Ant-Man, pellicola tratta dall’ennesimo film Marvel, sottolinea che i dialoghi sono una cosa passata. O forse come la crisi economica, i totalitarismi e gli imperi si sono trasformati in qualcos’altro? In realtà in questo caso sono semplicemente non pervenuti. Ma è cinema e come tale forse in questo caso si dà più importanza, come era d’obbligo al tempo del muto, ai volti, agli attori, al physique du role, ai corpi: da quello femminile iconico, ma molto poco statuario, anzi oseremmo dire quasi dirompente, di Evangeline Lilly – nascosta da cotanto caschetto nero à la Louise Brooks e quindi tutto anni Venti sul declino del muto – a quello maschile di un Paul Rudd in tiro (sembra stia diventando una costante a casa Marvel prendere attori comici poco noti per il loro sex appeal e fargli mettere su addominali, vedasi il Chris Pratt di Parks and Recreations con Guardiani della galassia). Così, tanto per accontentare tutti i gusti. Perfettamente in linea con lo standard della Marvel dove si possono raggiungere risultati più felici, come con Guardiani della galassia, o meno, come con Thor, dove ovviamente a farla da padrone ci sono gli effetti speciali, i combattimenti all’ultimo sangue, con qualche guizzo di ironia e di autoironia, senza dimenticare l’immancabile cameo di Stan Lee e le consuete scene sui titoli di coda che anticipano le nuove avventure di questi eroi, che ormai si intrecciano in crossover senza fine, Ant-Man, letteralmente “uomo formica”, mette in scena la storia semplice semplice di un supereroe che sa rimpicciolirsi e tornare a dimensione umana a comando e trova la sua forza proprio nella sua trasformazione in questa microscopica dimensione. E come al solito il suo compito sarà quello di salvare il mondo. Reietto dalla società il nostro protagonista è un ex detenuto con un master in ingegneria che nella San Francisco odierna non riesce a trovare lavoro una volta uscito da San Quintino e sua moglie, che si è consolata presto con un poliziotto davvero antipatico, non gli lascia vedere la sua unica figliola. Nel frattempo, uno scienziato, che ha scoperto come poter rimpicciolire il corpo umano a seconda dei bisogni, non vuole che la sua scoperta venga resa pubblica per paura che finisca nelle mani sbagliate (quelle del suo ex assistente, un uomo pazzo e senza scrupoli). E il messaggio è come sempre lapalissiano, i finti buoni sono i cattivi e i cattivi sono i veri buoni all’interno di un meccanismo sociologico che sottolinea che il potere e la malvagità sono nella politica, nell’affarismo selvaggio, nei ricchi uomini in giacca e cravatta, dove spesso si lavora per equilibrismo e la vera arma è il doppio gioco, mentre i ladri sono più che altro ladruncoli, disadattati non troppo svegli. Poi ci sono i sentimenti – che nascono e si consumano solo all’interno della famiglia, e dove i ruoli essenziali sono quelli che restano -, come quelli fra un padre e una figlia, a seconda che sia un uomo giovane con la sua bambina o uno anziano insieme alla sua piccola ormai adulta. Senza dimenticare le formiche supertecnologiche capaci di tutto e i trucchi della scienza e della tecnica che hanno permesso il loro muoversi all’interno della vicenda. Eppure la vera protagonista di tutto questo è la retorica tout court, seguita da una superficialità strutturale dell’intera opera, che poteva essere diretta meglio dal molto altalenante Peyton Reed. Però Ant-Man in fin dei conti è piuttosto divertente, lineare, si lascia guardare e ha un buon cast nominale: oltre alla bella Lilly e al bravo Rudd, che è anche accreditato tra gli sceneggiatori insieme a Adam McKay (tra gli autori del leggendario Saturday Night Live), Joe Cornish (suo l’originale esordio dell’indie britannico Attack the Block qualche anno fa) e Edgar Wright (suo il nerd Scott Pilgrim vs. the World), ci sono Michael Douglas, Corey Stoll, Bobby Cannavale e Michael Peña. Se si sospende l’incredulità e si resta un po’ bambini, pronti a stupirsi e a lasciarsi prendere dalla musica dei Cure o dalle note della Cucaracha, si passano due ore in allegria. E occhio ai portachiavi!